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Alpeggio

Alpeggio

L’alpeggio consiste nella stagionale conduzione degli animali in quota ed è una pratica “tradizionale”, ovvero una pratica rimasta immutata nel corso dei secoli fino a pochi decenni fa. Se adesso l’attività sta perdendo importanza rischiando addirittura di scomparire, in passato l’alpeggio era ritenuta fondamentale per il sostentamento delle comunità agricole e la sua pratica coinvolgeva molti aspetti della vita quotidiana delle popolazioni rurali.

Il carico dell’alpe, o monticazione, avviene di solito dopo la metà di giugno a seconda delle condizioni meteorologiche e alla conseguente consistenza dell’erba; la discesa dall’alpeggio, o demonticazione, avviene di solito dopo il 20 settembre.

La storia della Comunità delle Regole di Spinale e Manez è inesorabilmente legata all’attività di alpeggio nella val Rendena.

Prima del 1000 lungo l’arco alpino gli alpeggi a medie ed alte quote erano utilizzati da greggi di pecore e capre, solo dopo il 1100 si ebbe un mutamento di tendenza nella scelta del bestiame. Probabilmente il benessere economico portò i feudatari alpini a rifornire i propri territori con “vaccini”. L’allevamento di ovini e caprini non cessò, ma venne indirizzato ai pascoli più alti e più magri ed irraggiungibili dai vaccini per la proibitiva conformazione dei luoghi. In questo contesto il montanaro venne forzato ad occuparsi di bestiame grosso, più redditizio e garante di sicurezza dal punto di vista della produzione per le comunità alpigiane. Sui pascoli elevati, estesi, vergini, pieni di erbe salubri ed intatte, l’economia alpigiana dal 1200 in poi vi trasferì ogni anno e per un periodo fisso i vaccini dei territori di valle.

Ben presto, possiamo immaginarlo, le comunità alpine rivendicarono i diritti su specifici pascoli montani più adatti al bestiame, scaturendo spesso controversie risolte dinanzi ai “giudici” di allora. Le investiture dei pascoli, i loro confini ben chiari divennero fondamentali per le comunità: diversi atti registrati lo testimoniano. Così fu per i pascoli dello Spinale, territori ambiti da più parti per la redditività dei pascoli, spesso oggetto di contenzioso, di beghe comunitarie e di valle. La Regola di Spinale, proprietà collettiva della Comunità delle Regole di Spinale e Manez, deve la propria esistenza alla rivendicazione di tali pascoli da parti degli alpigiani di allora: così spieghiamo anche l’appartenenza di tale territorio al comune di Ragoli, posto ai piedi della Val Rendena, come risulta dal già citato manoscritto del 1249.

La pratica dell’alpeggio veniva effettivamente svolta con metodi tradizionali fino a non più di un paio di decenni fa. Difficilmente oggigiorno troveremo malghe totalmente attive, in cui si svolgano ancora tutte le attività legate alla vita di malga, (pascolo, mungitura, lavorazione del latte, stagionatura): non mancano invece, forse merito della nostalgia ma più probabilmente dell’attività turistica che funge da traino, le intenzioni e le proposte per riportare in loco le tradizionali attività: parliamo in primo luogo della lavorazione del latte direttamente in sito.

Comunque sia, la situazione attuale non si presenta particolarmente rosea: se da un lato l’attività alpestre nella zona in oggetto è ancora diffusa, spogliata comunque di quelle attività come la mungitura a mano e la lavorazione del latte, dall’altro pochi sono i fattori che stimolano a continuare tale pratica.

Nel giro di pochi anni l’attività dell’alpeggio potrebbe scomparire quasi del tutto con inevitabili e deleteri effetti sull’ambiente naturale e sulla qualità dei prodotti. La causa di ciò è legata al costo sempre più alto dell’alpeggio: la migliore qualità del latte infatti non verrebbe riconosciuta e quindi pagata come tale, anche il costo di un pastore è molto elevato e pochissima è la gente che accetta di fare il lavoro duro della malga.

Purtroppo l’attività dell’alpeggio non viene valorizzata economicamente perché non se ne comprende la fondamentale importanza nel contribuire a mantenere in efficienza i pascoli e quindi l’ambiente e il territorio, comprese molte zone di attrazione per i turisti.

La vita in malga

L’economia dell’alpeggio si basava sulla razionalità di un lavoro individuale ma combinato. Quattro, cinque uomini al massimo (casèr, malghèr), il pastore (vachèr), l’aiuto pastore (vachirol) costituivano la forza-lavoro della malga. Essi per tre mesi avrebbero dovuto gestire una mandria di cento e più capi di bestiame: annoveriamo tra questi le figure del cascinaio, e l’aiuto cascinaio (smarzirol). Il casèr era il personaggio “chiave”: si occupava della produzione casearia ed era responsabile del buon andamento della casina. Svegliava tutti di buon mattino, impartiva gli ordini per la giornata, controllava i pastori, si intratteneva con chi giungeva da fuori. Lo smarzirol, quasi sempre un ragazzone figlio di una famiglia numerosa e povera non impegnata nella stagione estiva nella vita di campagna, affiancava il caser in tutte le sue faccende.
 
Il vachèr era il responsabile della mandria e si serviva di uno o due vachirol. Anche nelle giornate piovose i pastori uscivano con le bestie: sulle spalle un mantellaccio, scarponi ferrati ed a tracolla una borsa di tela con il sale di cui gli animali erano avidissimi.

La giornata iniziava alle tre-quattro la mattina, i pastori, sollecitati dal malgaro, uscivano sullo stabbio (stabi) a concentrarvi le vacche lattifere. Con lo sgabello ad una gamba (scagnel da monger) ed il secchio (secia) tra le ginocchia il malgaro procedeva alla mungitura, operazione non scontata, incessante e di vera maestria. Il lavoro durava due-tre ore: al termine rientravano nella casina e verso le sette-otto si incamminavano al pascolo con la mandria. La scelta del pascolo veniva effettuata quotidianamente: il pastore doveva assicurarsi la presenza nei dintorni di pozze d’acqua o dei brent, vasche colme d’acqua ricavate con tronchi scavati od in muratura: il pastore solerte non abbandonava mai la propria mandria. Verso le tre del pomeriggio la mandria veniva ricomposta e riavviata alla malga per la mungitura serale.
 
Il latte munto veniva trasportato nella latteria, specifico locale o talvolta edificio separato: si procedeva alla filtratura e scrematura del latte. Poi lo si passava alla caldaia (caldera) per la lavorazione e la produzione del formaggio. La caldera era composta da un grande paiolo in rame sospesa ad un braccio di legno girevole (madran). L’operazione di fabbricazione del formaggio, colma di usanze e tradizioni e di una grande maestria, frutto di segreti e consigli tramandati nei secoli di generazione in generazione, teneva impegnati il malgaro e l’aiutante per diverse ore al giorno.

La via della malga

L’allevamento era molto importante ma toglieva spazio alle coltivazioni del fondovalle: anche per questo la soluzione adottata fu quella di spostare gli animali, conducendoli, in estate, sui pascoli in quota, dove l’agricoltura non poteva essere praticata con successo. Questo movimento di bestiame permetteva di ridurre gli spazi da dedicare alla produzione di foraggio, poiché era sufficiente disporne per i mesi invernali, quando si rendeva necessario il ricovero degli animali in stalla: ciò consentiva ai contadini di poter falciare i prati e preparare il fieno per l’inverno mediante i tre tagli fin, cort e terzol. Le bestie in malga non dovevano essere accudite da ogni singolo proprietario, non mangiavano fieno ma l’erba dei pascoli.

Un altro aspetto non meno importante era la possibilità di cibarsi di erbe aromatiche proprie dei pascoli di alta montagna, più saporite e nutrienti, che miglioravano la qualità del latte prodotto proprio per le intrinseche proprietà di tali erbe nel favorire la lattazione, con conseguenti benefici sulla produzione casearia.

Il carico dell’alpe, o monticazione, benché la tradizione parli sempre di date fisse, avveniva dopo la metà di giugno. In base alla consistenza dell’erba ed alle condizioni meteorologiche la comunità prendeva la propria decisione. Iniziava il tutto con la raccolta del bestiame, all’alba in paese: vacche da latte, asciutte e vitelli venivano consegnate ai pastori addetti per quell’anno alla malga, che dopo averli accolti, li eccitavano a muoversi con grida e gesta verso la “via della malga”. La prima vacca, forse meno lattifera, che prendeva l’avvio veniva eletta la “regina” della malga per tutta l'estate: essa guidava la mandria in ogni occasione. La salita alle malghe era il più delle volte lunga e faticosa: sentieri ripidissimi, disastrati lungo i quali i pastori spingevano la mandria senza forzarla, con accortezza; la fatica e le disagevoli piste avrebbero infatti pesato nei giorni successivi con una produzione di latte “affaticato”. Per questo motivo probabilmente vale il detto che una buona strada vale già mezz’alpe.

I percorsi dai paesi all’alpe erano ormai stabiliti da passaggi millenari. Esistevano inoltre piazzole per la sosta e abbeveratoi di legno o pozze d’acqua lungo tutto il percorso. Il tragitto, almeno per le nostre zone, durava non più di una giornata: i pastori cercavano di giungere alla malga nelle prime ore pomeridiane, per far riposare le bestie e poterle liberare del latte di “prima mungitura”, non utilizzato e passato ai maiali, sempre presenti in malga.

L’attività d’alpeggio cessava ai primi di settembre: dopo il 20 di agosto l’erba scarseggiava e gli “uomini” della malga seguivano con attenzione il pascolo e le condizioni meteo-ambientali. Lo scarico, o demonticazione, avveniva in ogni caso prima del 10 di settembre: gli attrezzi della malga venivano portati a valle i giorni seguenti lo scarico. Alla consegna del bestiame ai rispettivi proprietari seguivano tutta una serie di contatti tra il malgaro e la comunità per le rese dei prodotti caseari.

Negli ultimi decenni, grazie allo sviluppo turistico che ha incoraggiato la sistemazione di strade e sentieri, “le vie delle malghe” sono indubbiamente migliorate, intatto è invece rimasto il fascino della salita in malga di una mandria di possenti vacche Rendena, che fanno risuonare i propri campanacci nel silenzio dell’alba.

La razza Rendena

La pratica dell’alpeggio in Val Rendena ha permesso l’evoluzione nei secoli di una razza bovina autoctona che prende il nome dall’omonima valle: la razza Rendena. Le origini di quest’ultima vanno collegate alle vicissitudini delle popolazioni della Val Rendena e delle Giudicarie. I primi documenti sul tipo di bovini allevati in queste zone risalgono agli inizi del 1700. Nel 1712 ci sarebbe stata la prima vera e consistente importazione documentata di bovini da vallate svizzere: proprio qui probabilmente gli allevatori della Rendena avevano trovato delle affinità con il loro bestiame indigeno che necessitava di un consistente ripopolamento: fase che terminò prima della fine del 1700.

Il fattore determinante per l’evoluzione ed il mantenimento della razza, a testimonianza dell’importanza economica di tale settore nella Rendena, fu la minuziosa e saggia iniziativa intrapresa dagli allevatori dalla metà del 1700 ad oggi: vennero organizzate mostre e selezioni di capi dalla conformazione e caratteristiche razziali da destinarsi alla riproduzione. Così si istituirono i Consorzi di Monta gestiti dai Comuni vietando la riproduzione tra capi di diversa razza. Si giunse quindi alla selezione del “tipo”, definito dalla letteratura come bovino selezionato in Val Rendena soggetto a duplice attitudine, di taglia piccola, gentile, molto vivace, nevrile, a mantello uniforme di colore castano o castano scuro successivamente definito “Razza Bruna delle Giudicarie – Razza Rendena”.
 
L’istituzione del Libro Genealogico Nazionale del 1976 e la successiva costituzione Associazioni Nazionale degli allevatori di Razza Rendena (A.N.A.R.E.) nel 1981 avviarono iniziative di studio e di prove atte alla conservazione e al miglioramento della razza. Tutt’oggi Caderzone è il luogo che conta il maggior numero di capi (circa 800) sui circa 4500 esistenti nell’arco alpino.

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